Andreina Rastello – Lorenzina Opezzo[*]
articolo pubblicato ne “l’impegno”, a. I, n. 0, aprile 1981
Il dopoguerra
L’Italia usciva dalla guerra completamente stremata: non soltanto si confermava un paese povero, ma si trovava anche fortemente indebitata con i suoi alleati, per cui gli anni che si aprirono con il dopoguerra furono di fermento rivoluzionario e di profonda e generale crisi della società e dello Stato[1].
Il malcontento serpeggiante nella classe lavoratrice a causa della disoccupazione e dell’aumento del costo della vita spinse le masse verso i sindacati rossi e bianchi, ma specialmente si tradusse in fiducia nel Partito socialista, l’unico che si era mantenuto, in linea generale, costantemente contrario all’interventismo.
Le vittorie conseguite dal Psi a larga maggioranza nelle elezioni politiche del 1919 e 1921 e quelle amministrative del 1920 furono la dimostrazione della volontà popolare per il superamento dello Stato liberale e per la realizzazione di quella dittatura del proletariato che la Rivoluzione russa aveva concretizzato, fornendo l’esempio delle capacità rivoluzionarie insite nella massa. Ma il Partito socialista, malgrado questi successi, non seppe sfruttare il momento opportuno, porsi alla guida della situazione e corrispondere alle esigenze della classe lavoratrice. I dissidi tra le due correnti, massimalista e riformista, determinarono il contrasto tra le teorie rivoluzionarie e l’immobilismo pratico; in particolare le teorie di socializzazione della terra e di esproprio in generale alienarono al partito larghi settori del mondo contadino.
In Piemonte, particolarmente gravosa era la condizione di braccianti e salariati, non vincolati ad un lavoro stabile ma stagionale e legato alle crisi di produzione; nel Vercellese nel 1919 vigeva addirittura ancora un concordato le cui clausole erano particolarmente restrittive. Sul rinnovo di questo concordato si scontrò l’intransigenza degli agricoltori con le richieste alquanto miti delle organizzazioni contadine, che proclamarono uno sciopero, subito composto con la vittoria degli agricoltori per l’intervento del governo.
A questo si ricollega il grande sciopero in risaia del marzo 1920 concluso con il concordato del 19 aprile[2]; questa, insieme alla giornata lavorativa di otto ore del marzo 1919, fu una conquista delle organizzazioni socialiste; nonostante ciò le agitazioni non cessarono per la cattiva volontà degli agricoltori nel rispettare i patti e per le continue intromissioni del Partito popolare, che aveva organizzato i piccoli proprietari, giovandosi del loro timore di una socializzazione delle terre e del tradizionale anticlericalismo del Psi; il Ppi si mostrava soprattutto interessato a presentare i socialisti come “affamatori” ed a trattare separatamente. Gli agricoltori ed i risieri vercellesi, che in un primo tempo avevano tentato di richiamare la manodopera ad una “cordiale collaborazione” e ad una moderazione nelle pretese, per non gravare ulteriormente sulla crisi dell’agricoltura, per tutto il triennio si impegnarono al rafforzamento delle proprie posizioni, boicottando i diritti dei lavoratori, procedendo a licenziamenti irregolari e chiedendo al governo concessioni e misure per una maggior libertà di commercio (nel gennaio 1921 fu votato un o.d.g. in cui gli agricoltori si dichiararono disposti, se il governo non avesse concesso l’abolizione dei consorzi, a non effettuare semine)[3].
Benché il Vercellese fosse prevalentemente agricolo, analoga fu la posizione degli industriali che si trovarono perfettamente in accordo nella non osservanza dei concordati ed in azioni reazionarie, di cui la più clamorosa fu la serrata della Pettinatura Lane proclamata il 29 aprile 1921 in seguito ad uno sciopero socialista indetto in segno di protesta per un’aggressione fascista.
Gli scioperi che si ebbero in questi anni accrebbero lo smarrimento nelle masse ed il timore nei ceti abbienti alto e piccolo borghesi di vedere minacciata e danneggiata la proprietà privata ed in particolare l’avanzata socialista nel Comune, nel Consiglio provinciale ed anche nei seggi parlamentari con le elezioni, agì in modo determinante nell’orientamento degli agrari verso un movimento che ristabilisse “l’ordine”: quell’ordine che riaffidava al padronato un potere privo di limitazioni, permettendogli di tornare ad essere quello che era stato per lunghi anni: il padrone assoluto del paese, il capo del comune, il dirigente di tutte le istituzioni pubbliche locali e provinciali.
La crisi economica che avrebbe potuto portare sviluppi rivoluzionari aprì invece la via alla reazione; tutti quei ceti che avevano visto con paura il susseguirsi degli scioperi, l’avanzata rossa, il diffuso anticlericalismo massimalista, esigevano l’eliminazione del governo che, favorevole ai compromessi, non dava più loro garanzie di sicurezza, e questa sicurezza ricercavano in un uomo ed in un partito che fosse in grado di dare al paese un equilibrio duraturo e definitivo. Ciò fu notoriamente trovato in Mussolini e nel Movimento dei Fasci, da lui fondato nel 1919[4].
Il favore di agrari ed industriali vercellesi al movimento che si trasformò poi in partito nel novembre 1921, è documentato dai commenti favorevoli del giornale liberale “La Sesia” alle azioni squadristiche che si succedettero per tutto il 1921, particolarmente nel circondario. Il fascismo viene giustificato come legittima reazione, sacrosanta ritorsione di soprusi, di sopraffazioni, di tirannie di coloro che volevano annientare la borghesia, come una provvidenza per i cittadini indifesi contro le minacce alla libertà, sottolineando addirittura che, se avesse agito immediatamente dopo la guerra, sarebbero stati risparmiati gravi danni economici, odio e confusione. Apparentemente diversa la posizione de “Il Vercellese”, giornale che appoggiava il Partito popolare, su cui si cerca di fare un’analisi critica, considerando l’ascesa del fascismo non per virtù del suo contenuto programmatico, ma per la seduzione del metodo prescelto a sostegno dei suoi fini politici: cioè l’azione violenta e diretta efficacemente ed immediatamente contro la “follia rossa”; ma quasi analoga è la forma di presentazione degli scontri tra fascisti e comunisti: maggior rilievo viene dato ai feriti fascisti, alle provocazioni social-comuniste a loro danno, che non alle spedizioni contro le leghe rosse e le case del popolo, alle violenze private, aggressioni brutali, bastonature ed olio di ricino nei confronti di coloro da cui si ritenevano provocati. Bisogna notare che “Il Vercellese” con tale sistema era persuasore più sottile della violenza fascista, in quanto influenzava stabilmente l’organizzazione cattolica e quindi larghe masse.
Abilmente sfruttata dai fascisti vercellesi fu l’uccisione avvenuta ad Albano l’8 gennaio 1921 di Aldo Milano in una spedizione di combattenti: le versioni sulla sua morte furono contrastanti, ma opportunamente si creò il mito del giovanetto morto per la Patria, per l’onore dei combattenti caduti, per la difesa di questi valori contro le infamie dei rossi[5].
Con la morte di Aldo Milano, a cui fu immediatamente intitolato il fascio cittadino, si aprì una serie di “martiri fascisti” di cui il fascismo si valse in seguito, propagandando la nobiltà delle loro azioni ed organizzando grandiose cerimonie di commemorazione con le quali si voleva far sparire il ricordo di altri martiri, quelli socialisti, il cui sacrificio era di gran lunga più alto, perché difendevano quei diritti, la cui conquista era già stata per loro causa di sacrifici e di lotta. Durante tutto il 1922 si intensificò la campagna contro “i feroci attentati social-comunisti”; la tensione era altissima, le azioni di violenza erano all’ordine del giorno e le distruzioni delle sedi socialiste si susseguivano, per cui bastava un semplice indizio, talora artefatto, per procedere ad arresti contro comunisti ed anarchici.
Da parte socialista apparvero frequenti richiami all’opinione pubblica (su “La Risaia”, organo della Federazione socialista) per le generiche imputazioni e condanne dei “rossi” e per la connivenza dell’autorità di Pubblica sicurezza che, malgrado le frequenti denunce non aveva proceduto ad alcun arresto, benché fossero di dominio pubblico i nomi degli autori degli incendi nelle case del Popolo del circondario, e la passività della polizia di fronte a manifestazioni volgarmente provocatorie come quella contro il deputato socialista Maffi.
L’occupazione del Municipio di Vercelli
Dopo la distruzione delle leghe socialiste e l’intensificarsi delle violenze fasciste nei mesi di maggio e giugno seguite a quelle su scala nazionale, ai fascisti vercellesi non restava che impossessarsi del Municipio, che dalle elezioni comunali del 1920 era in mano ad una amministrazione socialista risultata vittoriosa con stragrande maggioranza sui popolari e sui liberali.
L’esempio fu fornito dall’occupazione del Municipio di Novara da parte di squadristi pavesi e monferrini che provocarono devastazioni, morti e feriti; in seguito a questo fatto a Vercelli venne proclamato lo sciopero generale di protesta il 19 luglio. Secondo “La Sesia” l’ordine non venne però completamente eseguito e moltissimi operai si presentarono al lavoro: lavorarono gli stabilimenti Avis, Rossa e Pettinatura e tutti i piccoli opifici[6].
Il giorno successivo, 20 luglio, il Direttorio del Fascio rassegnò le dimissioni ad un Comitato segreto d’azione che, valendosi dei suoi poteri, ordinò la mobilitazione di tutte le forze fasciste del circondario.
Nella preparazione dell’occupazione del Municipio di Vercelli si possono inserire due episodi collegabili: una scoperta d’armi al campo di Marte sotterrate durante l’occupazione delle fabbriche, scoperta dovuta ad una “soffiata” pervenuta al Fascio; le armi furono sequestrate dai fascisti ma una perquisizione, effettuata nella stesso giorno alla sede del Fascio Aldo Milano, dal vicecommissario dott. Simoni, risultò “completamente infruttuosa”. Trovate le armi, si poteva procedere all’azione diretta: verso le ore 15 dell’11 agosto 1922 una squadra di una cinquantina di fascisti occupò gli ingressi del palazzo comunale, mentre una rappresentanza, composta dal notaio Primo Grea, dal rag. Alfredo Benasso e dall’ing. Cesare Forni, salì al gabinetto del sindaco dove ebbe un breve colloquio con il pro-sindaco avv. Giuseppe Pedrotti[7], chiedendogli “in nome della cittadinanza” le dimissioni dei consiglieri. Avendo dichiarato l’avv. Pedrotti di non poter rassegnare le dimissioni senza prima aver sentito il parere della Sezione socialista, i fascisti lo invitarono ad allontanarsi, occupando essi la sede comunale.
Dopo le dimissioni presentate da dodici consiglieri comunali socialisti, non restava ai fascisti l’ombra di un pretesto qualsiasi per non procedere all’occupazione del Municipio. Dopo aver dipinto – senza opposizione di alcuno e tanto meno dell’autorità politica – gli emblemi di un partito sul palazzo che appartiene a tutti i cittadini, dopo aver aggiunto ai dipinti iscrizioni inneggianti alla caduta dell’amministrazione, dopo aver vittoriosamente imposto l’esposizione di bandiere, l’occupazione si presentava ormai come una pura formalità. Lo stesso sottoprefetto di Vercelli aveva pregato, alla metà di luglio, il rappresentante del sindaco – l’avv. Pedrotti era a Roma – di voler conferire con lui e gli aveva esposto nettamente che, in caso di invasione fascista del Municipio di Vercelli non si dovevano “prendere le cose sul tragico” ed era necessario fare fagotto.
Questo avvertimento, che era in pratica una autorizzazione, fece sì che si continuasse a lasciar fare e che eliminati i socialisti, venisse eletto commissario provvisorio del Comune, da parte del sottoprefetto, il rag. Franco Cimino che si era particolarmente distinto per la sua acquiescenza nei confronti dei fascisti durante l’assalto di Comuni del circondario[8]. Il testo dell’atto di consegna del Comune al commissario prefettizio dice: “La sezione vercellese Aldo Milano del P.N.F. consegna il Municipio di Vercelli occupato a nome della cittadinanza devota alla Patria al signor rag. Franco Cimino, Commissario prefettizio. Con tale atto la sezione di Vercelli del P.N.F. intende riconsegnare all’Italia purificata e riconsacrata, la città di Vercelli, rimasta per troppo tempo fuori dell’orbita nazionale. Vercelli, nel palazzo del Comune, ore 18,30 dell’11 agosto 1922. Per il Direttorio: Bodo”[9].
Seguirono per tutta la sera dimostrazioni con esposizione di bandiere e comizi tenuti da Cesare Forni, Leandro Gellona, Ignazio Serra; nella notte verso le 24,15 i fascisti, scassinata la porta del circolo dei lavoratori di Porta Torino, entrarono nel locale, gettando in strada tutta la merce ed il mobilio. Accatastato il materiale, vi appiccarono il fuoco, che in breve distrusse ogni cosa, le stesse azioni vennero eseguite contro il circolo dell’Isola e lo spaccio comunale di Porta Milano.
Secondo un manifesto del Fascio non i fascisti, ma “ignobili individui” furono gli autori delle devastazioni: “… Camicie Nere! Il gravissimo esempio di indisciplina… deve riscuotere il vostro leale ed aperto biasimo. Il Direttorio, per moto istintivo e per tutelare la vostra fama ed onorabilità, ha aperto una inchiesta severa sui fatti svoltisi. I colpevoli saranno denunciati all’autorità di P.S. e lasciati in balia della pubblica opinione, perché nessun onesto può sopportare l’equivoco di una male intesa solidarietà con dei volgari vandali”[10].
Malgrado quest’ “affermazione” gli incendi ai circoli socialisti continuarono a verificarsi, mentre si susseguivano le dimissioni delle amministrazioni socialiste dei paesi del circondario.
Le azioni capillari che si erano finora svolte nelle province italiane erano il preludio della presa di potere del fascismo; ma per arrivare all’identificazione tra il movimento fascista e lo Stato era necessario rendere più salde le sue posizioni, onde evitare il dissolvimento da molti prospettato per l’eterogeneità del programma e della sua composizione sociale, appena passata la congiuntura politica che ne aveva permesso l’ascesa. Mussolini cominciò ad allontanare dal proprio partito gli elementi più estremisti, rassicurò la monarchia sconfessando i propri precedenti repubblicani, ed il clero abbandonando il proprio vecchio anticlericalismo si accattivò ulteriormente la fiducia degli industriali con affermazioni di liberismo economico, mettendo così completamente da parte il suo programma pseudo-socialista del 1919. Anche gli uomini della classe dirigente si allinearono a questa nuova “rispettabilità” del fascismo; ormai la situazione presentava un’unica via d’uscita, essendo l’opposizione impotente a fronteggiare seriamente gli eventi: i socialisti, in contrasto coi comunisti erano divisi anche all’interno ed i popolari non avevano più l’appoggio della Chiesa dal febbraio 1922. La marcia su Roma rappresentò, quindi, lo sbocco della situazione e la monarchia, cedendo al ricatto mussoliniano, si rese responsabile e complice della ventennale dittatura fascista.
I1 31 ottobre i fascisti vercellesi organizzarono una manifestazione per celebrare la vittoria del partito e l’ascesa al potere di Mussolini, la dimostrazione ebbe uno strascico davanti alla sottoprefettura, al grido di “viva il Re! viva l’Italia!” ed il sottoprefetto rispose con parole di elogio ai dimostranti.
Nel novembre i fascisti continuarono vittoriosi nelle nuove “imprese”: il 1° si impossessarono delle bandiere rosse del Circolo socialista dei Cappuccini, dell’Isola e del Belvedere, distruggendo nuovamente mobili e documenti.
Il 17 venne firmato il decreto di scioglimento del Consiglio comunale.
Dopo queste azioni era indispensabile al fascismo, per consolidare il potere raggiunto e per controllare l’opinione pubblica, eliminare tutte le possibilità, già ridotte al minimo, di non allineamento della stampa di opposizione. “La Risaia”, già abbondantemente censurata, fu messa a tacere e dopo di essa non comparve più alcuna critica ufficiale.
“La Sesia” così commentò: “facciamo le nostre riserve su questo ordine, tanto più che il contegno remissivo del giornale socialista in questi ultimi tempi non pare rendesse necessaria questa misura”[11]. Questo fu uno dei pochi ed ultimi commenti indipendenti che il giornale si permise prima della sua totale adesione al fronte fascista.
Anche la stampa cattolica, pur non subendo le stesse restrizioni di quella socialista, venne “sistemata”. Il Vercellese cessò le pubblicazioni il 18 agosto 1922, “L’Argine”, foglio periodico dei giovani cattolici vercellesi, divenne a partire dal 1 gennaio 1923 l’organo dell’Azione cattolica della diocesi.
L’adesione dei rappresentanti della borghesia cittadina al fascismo
Dopo una campagna di stampa contro l’amministrazione socialista, fattasi particolarmente intensa dopo l’imposizione della soprattassa sugli immobili danneggiante la borghesia cittadina, a coronamento delle critiche a fine gennaio apparve su “La Sesia” una relazione dell’on. Mussolini al re sullo scioglimento del Consiglio comunale di Vercelli: “L’amministrazione del Comune di Vercelli per finalità di partito (socialista!) ha eseguito, specie nell’esecuzione di lavori pubblici non urgenti, una particolare politica di spese eccessive che ha gravemente compromesso la situazione finanziaria dell’Ente.
Il disavanzo di competenza che nel 1920 era di L. 700.000 è ora salito a quasi 2.000.000 e, se vi sarà ritardo, od impossibilità a riscuotere alcuni proventi d’entrata, la cassa non potrà a fine anno far fronte neppure
alle spese derivanti da impegni ordinari…
Nell’aprile scorso vi fu una prima crisi della Giunta Municipale; ma questa fu subito composta e soltanto nei primi dell’agosto scorso si ebbero le dimissioni di 21 consiglieri tra cui il sindaco su 40 assegnati per legge, cui seguì l’occupazione del Municipio per opera dei fascisti il giorno 11 dello stesso mese e il conseguente invio di un Commissario prefettizio che assunse d’urgenza, anche per ragioni di ordine pubblico, la provvisoria gestione della civica azienda. Non appare ora possibile nelle presenti condizioni di eccezionale turbamento dello spirito pubblico far luogo a tentativi di reinsediamento della normale rappresentanza, perché turberebbe lo stato di apparente pacificazione né potrà protrarsi ancora la provvisoria gestione del Commissario.
Si rende necessario lo scioglimento del Consiglio comunale con la conseguente nomina di un Regio Commissario munito dei più ampi poteri”[12].
Le elezioni per il nuovo Consiglio comunale furono, quindi, indette per il 18 febbraio 1923.
Nella sede del Pnf si costituì il Comitato del Blocco elettorale d’Intesa nazionale a cui aderirono il Partito nazionale fascista, l’Associazione nazionalista ed il Partito popolare. Seguendo le deliberazioni della Federazione provinciale di Novara, la Sezione Combattenti di Vercelli non aderì, come associazione, alla lista dei candidati del Blocco elettorale d’Intesa per le elezioni amministrative; fu tuttavia lanciato un appello in cui si raccomandava di votare la lista dell’Intesa senza alcuna cancellazione.
Analoga posizione di appoggio esterno e propaganda fu assunta dai liberali e da “La Sesia” ed anche i cattolici furono invitati dall’organo diocesano a votare questa lista.
Secondo “La Sesia”, nella lista erano rappresentati: “tutti i partiti meno gli antinazionali e tutte le classi sociali […] Vi sono anche dei giovani colti e volenterosi e delle persone che nelle private aziende hanno acquistato quel senso pratico della vita che torna prezioso anche nella direzione della cosa pubblica”[13].
Dall’analisi della lista si nota che erano veramente rappresentate tutte le classi sociali, ma con una sperequazione notevolissima: 5 operai soltanto nei confronti di 20 liberi professionisti, 8 industriali, 3 agricoltori, 2 commercianti, 2 impiegati.
Tra i liberi professionisti ben 6 avvocati: una categoria di estrema importanza per la classe agraria: facevano, infatti, da trait d’union tra il padronato e la classe salariale e, rappresentando le leggi, risultavano i difensori dell’ordine (padronale). Notevole poi che coloro che ottennero i maggiori consensi fossero proprio quegli industriali e quegli agricoltori che si erano distinti per le violazioni ai concordati e nelle lotte contro i contadini (ad esempio il futuro onorevole Roberto Olmo) e quei liberi professionisti che avevano partecipato a non poche spedizioni fasciste nel circondario (ad esempio Riccardo Monaco, Alfredo Benasso, Mario Defabianis futuro federale); logicamente risultarono anche eletti i maggiori sovvenzionatori (ing. Canetti, rag. Simondi, il pittore Capriolo)[14].
Solo il 63 per cento degli elettori iscritti votò, ma “La Sesia” si premurò di far immediatamente notare che anche se l’alta percentuale degli astensionisti fosse stata costituita tutta da socialisti, non avrebbe raggiunto nemmeno la minoranza; soltanto ai Cappuccini, notoriamente “isola rossa”, le cancellature raggiunsero proporzioni tali che la stampa filo-fascista fu costretta a farvi un accenno.
La nuova giunta comunale risultò così composta: sindaco grand’uff. Felice Lombardi, assessore anziano rag. Alfredo Benasso; assessori effettivi: dott. Camillo Sessa, ing. Francesco Dusnasi, Enrico Ghittino, avv. Mario Defabianis, geom. Giuseppe Vercellotti; assessori supplenti: rag. Francesco Averone, rag. Vincenzo Simondi.
Con queste elezioni il fascismo ricevette il primo crisma ufficiale dalla cittadinanza e i più tipici ed autorevoli rappresentanti della borghesia locale ebbero la possibilità di prendere definitivamente possesso della amministrazione cittadina. Su di essi quindi erano confluiti i voti anche perché erano per tradizione i rappresentanti del ceto “benpensante” che, in una città come la nostra, era identificato con i grossi agricoltori (residenti nel circondario, ma aventi le proprie “clientele” in città).
Mancando la cosiddetta aristocrazia – gli unici nobili erano i De Rege Thesauro, peraltro grossi agricoltori – i borghesi, di cui facevano parte i popolari (Vincenzo Canetti, l’avv. Luigi De Gaudenzi, l’avv. Giuseppe Fortina) ed i liberali (Roberto Olmo, Giovanni Alice, Aldo Rossini, tutti agricoltori-redditieri), erano stati i fautori del fascismo per la cui affermazione avevano contribuito con mezzi materiali, al fine di riottenere quelle posizioni di privilegio che le ultime amministrazioni socialiste avevano messo in serio pericolo.
La creazione degli organi fascisti
La “vittoria” dei fascisti alle elezioni comunali dimostrò in parte il favore di quei ceti sociali di cui Mussolini aveva inteso accattivarsi le simpatie fin dalla creazione del suo governo. Pochi giorni dopo la marcia su Roma il leader fascista aveva decretato la tanto attesa abolizione della nominatività dei titoli e aveva poi affidato il ministero delle Finanze al liberista Destefani, concretizzando ulteriormente nel 1923 i suoi propositi antistatalisti espressi nel discorso di Udine. L’appoggio di questi ceti al governo e la situazione economica che entrava in un periodo di congiuntura favorevole permisero di cominciare la creazione delle strutture di base dello stato totalitario. La prima fu l’istituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale nel gennaio 1923, con la quale si creava accanto all’esercito regolare un esercito privato. A Vercelli la sua costituzione avvenne piuttosto affrettatamente, ma la cerimonia inaugurale ebbe ugualmente un carattere di solennità popolare; fu il prefetto cavalier Fronteri a tenere un discorso di esaltazione del fascismo e delle sue opere.
Anche la fusione nazionalisti-fascisti su scala nazionale non mancò di trovare il nazionalismo vercellese debitamente allineato; il rappresentante del nazionalismo novarese Ezio Maria Gray inviò un telegramma di entusiastica adesione al fascio di Vercelli (il direttorio del fascio Aldo Milano nominato nell’aprile ’23 dopo lo scioglimento del febbraio era composto da: rag. Averone, rag. Benasso, rag. Conti, avv. Bozino, tenente Masoero, sig. Ghittino, cav. Olmo; in seguito ad una crisi interna – di cui non si fornirono molti particolari – si aggiunsero nell’ottobre: rag. Bodo, sig. A. Bodo, dott. Prestinari, sig. Balzaretti).
La necessità di far corrispondere l’organizzazione effettiva a quella teorizzata, affermante l’integrità, la saldezza, la superiorità morale dei membri, indusse il Fascio a prendere provvedimenti disciplinari nei confronti di coloro che si erano resi responsabili di manchevolezze, con numerose espulsioni motivate semplicemente da un generico “indegnità”. Si può notare come coloro che furono espulsi definitivamente non facessero parte dei ceti più “solidi” e delle personalità più note, mentre tra i riammessi notiamo ad esempio: il notaio Primo Grea, l’avvocato Antonio Bodo, Andrea Balzaretti, Guido De Benedictis e cioè liberi professionisti ed imprenditori nei confronti dei quali il fascio era forse disposto a transigere sull’ “indegnità” ma non a rinunciare al loro apporto finanziario.
Il 9 settembre venne costituita la Sezione femminile del Fascio il cui direttorio fu affidato a Matilde Meregazzi, Lina Neri, Rina Chiais, Casdove Passera, Nerina Giublena.
Nello stesso mese, al Congresso provinciale venne nominato presidente dell’Assemblea e fiduciario provinciale Amedeo Belloni. L’Assemblea richiese provvedimenti contro la stampa social-comunista invitando a boicottare, particolarmente in Piemonte, il giornale “La Stampa”, definendolo ” tenacemente disfattista nei confronti del Governo, del fascismo, della Nazione”[15].
A fine anno l’Amministrazione cittadina fu appagata dei suoi sforzi di organizzazione dal “grande onore” dell’accettazione di S. E. Benito Mussolini della presidenza onoraria della prima Mostra italiana delle attività municipali. Si sperava soprattutto, evidentemente a causa delle non troppo floride condizioni economiche, in un appoggio finanziario da parte del governo.
Le elezioni politiche del 1924
Dopo la riforma elettorale con la quale si era stabilito che la lista che avesse raggiunto il maggior numero di voti avrebbe ottenuto i due terzi dei seggi, Mussolini presentò la lista nazionale, il cosiddetto “listone”, nel quale confluivano fascisti, ma anche non fascisti. Con questa legge e con le violenze che caratterizzarono tutta la campagna elettorale si assicurò la maggioranza, ma in molte città operaie la lista nazionale ottenne meno voti di quelle di opposizione.
Stando alla lettura dei giornali cittadini le elezioni in città si svolsero in clima “idillico”: nessuna violenza, nessun sopruso, nessuna azione antisocialista. La stampa locale diede ampio rilievo alle biografie dei candidati novaresi e vercellesi che, in base alla proposta del Direttorio federale fascista di Novara furono i seguenti: Giovanni Alice deputato uscente, Amedeo Belloni segretario dei Fasci provinciali di Novara, ing. Roberto Forni presidente dell’Associazione fascista agricoltori, sig. Mecco, avv. Roberto Olmo agricoltore e pubblico amministratore, Paolino Pellanda combattente decorato e insegnante di belle lettere, Aldo Rossini deputato uscente, avvocato, combattente decorato già sottosegretario di stato alle pensioni di guerra. Tra questi Olmo e Alice erano di Vercelli.
All’invito di Mussolini affinché le lezioni si svolgessero “… con la massima tranquillità e con la massima libertà di voto, perché all’estero non si possa poi sofisticare sul loro valore e si comprenda come il popolo italiano sia veramente concorde sulla opera di tenace e grandiosa ricostruzione intrapresa dal suo governo”[16] risposero l’organo liberale e quello cattolico: malgrado la constatazione di irregolarità nella gestione del Comune per l’applicazione di tasse e gravami che avevano il sapore di vendette, la propaganda fu incentrata a far convergere l’attenzione pubblica non sull’operato degli amministratori locali ma sulla grandiosità del programma mussoliniano. Venne presentato come unico dovere dei lettori quello di votare la lista nazionale e non quella liberale fiancheggiatrice, che pure si presentava alle urne. Molto più ambiguo fu l’atteggiamento de “L’Argine”. Si parlò dei doveri dei cattolici e di quelli dei cittadini, ricordando, ai primi, intransigenza sui valori morali, ai secondi, doveri civici e quindi partecipazione alle urne; si parlò della libertà e della neutralità del clero, ma si scrisse: “La neutralità politica è dunque assurda, tanto più che è impossibile esercitarla praticamente, perché chi vi si prova finisce con l’annullarsi nell’astensionismo più assoluto e nel parteggiare magari inconsapevolmente”[17]. Alla domanda dei cattolici “che atteggiamento assumere?” apparsa sul n. 8 del 22 febbraio forniva indirettamente una chiara risposta l’articolo apparso sullo stesso numero, in cui si elogiava la validità della lista nazionale.
Evidentemente più scopertamente partigiane erano le posizioni dei sacerdoti cittadini, se S. E. l’Arcivescovo sentì il dovere di richiamarli all’imparzialità “comandando a tutti i sacerdoti di astenersi assolutamente da ogni propaganda elettorale per qualsivoglia partito”[18].
A questo “referendum” sul fascismo aderirono in città 6.844 votanti su un totale di 10.385 iscritti; 661 furono le schede nulle. I voti furono così ripartiti: Socialisti unitari 299, Popolari 246, Democratici sociali 67, Fascisti dissidenti 56, Contadini 10, Liberali 523, Comunisti 1.077, Lista nazionale 2.789, Massimalisti 1.162[19].
Così le preferenze su scala provinciale: Rossini 29.036, Belloni 16.360, Forni 11.830, Alice 6.910, Pellanda 7.407, Olmo 6.065, Mecco 4.411[20].
I riflessi del caso Matteotti
La denuncia delle violenze e delle illegalità che avevano caratterizzato le elezioni venne fatta nella seduta della Camera del 30 maggio da Giacomo Matteotti, rappresentante del Partito socialista unitario che con questa aperta accusa firmò la sua condanna a morte: venne rapito il 10 giugno ed il suo cadavere venne ritrovato nella campagna romana il 16 agosto.
Sull’organo fascista vercellese “Rinascita” non si fece alcun accenno all’avvenimento, mentre invece acquistarono particolare rilievo, sui numeri di quel periodo, piccoli avvenimenti della cronaca cittadina.
“La Sesia” così commentò: “L’atroce misfatto compiuto contro l’onorevole Matteotti ha destato in tutta Italia un’impressione profonda di sdegno e di indignazione. Nessuno tenti una qualunque giustificazione per l’atto abominevole… colpire bisogna; colpire con anche crudele imparzialità, colpire tutti: chi ha eseguito il nefando delitto e quelli che lo hanno voluto ed organizzato a qualunque altezza si trovino. Colpire per salvare, per salvare dal fascismo quella che è la sua caratteristica più degna e più nobile: la passione patriottica, la valorizzazione dei sacrifici e delle glorie dell’Italia, il desiderio ardentemente perseguito della sua grandezza per salvare il buon nome della patria all’estero, per togliere noi tutti, che quest’Italia amiamo sinceramente e devotamente, da uno stato che ci umilia e ci avvilisce. Colpire bisogna anche dove la scure tratta dal fascio littorio dovesse stroncare rami artificiosamente vigorosi dal tronco del fascismo”[21].
Analizzando un tale tipo di prosa in cui si mescolano latinismi di maniera e retorica a man salva ben si comprende che per “La Sesia” il fascismo doveva essere salvato e accettato.
Anche la stampa cattolica chiese che luce fosse fatta per punire esemplarmente quanti ebbero parte nell’impresa.
Gli articolisti dimostrarono di non tenere in nessun conto le varie voci di politici e di popolo sulla complicità di Mussolini, e soprattutto la crisi che si aprì il 13 giugno in Parlamento con l’abbandono dell’aula da parte dei gruppi di opposizione, per protesta contro il presidente del Consiglio, indicato come il mandante morale dell’uccisione di Matteotti, crisi che culminò il 27 con la secessione aventiniana.
La stampa cittadina non rese palese alcun elemento che denunciasse lo stato di panico in cui il fascismo era piombato in quei giorni, probabilmente perché l’opinione pubblica, già fortemente scossa da quell’episodio in cui culminava la quadriennale violenza fascista, non fosse ulteriormente “turbata”. L’amor del quieto vivere fece scegliere la passività che si risolse, per non sbilanciarsi in questa fase critica in cui era incerto il destino del fascismo, nell’incentrare l’attenzione sulla cronaca locale (naturalmente molti i fatti privi di interesse) e su Filippelli (il proprietario dell’auto su cui fu rapito Matteotti); di questi però non si indagò né la posizione politica, né il ruolo svolto nel delitto, ma piuttosto la sua attività di editore “dell’ultimo romanzo pornografico – Matha Hari – messo all’indice dalla Chiesa”>[22].
Così come in tutta Italia la stampa fascista, quasi obbedendo ad una parola d’ordine, fu unanime nel bollare tutta la campagna degli oppositori come “speculazione”; anche quella cittadina mise particolarmente in evidenza l’attività dei “sovversivi”. Fu pubblicata la notizia dell’automobile proveniente da Novara, dalla quale vennero lanciati manifestini inneggianti a Matteotti ed invitanti i lavoratori a disertare il lavoro, ed essendo state esposte bandiere rosse in piazza della Stazione, in piazza Torino, ai Cappuccini e all’Isola, dopo la notizia del ritrovamento della salma del deputato socialista, così commentò il periodico fascista locale: “…anche a Vercelli il seme gettato a piene mani dai giornali comunisti alleati in osceno connubio con i liberali ha dato i suoi frutti”[23].
Inoltre, per riguadagnarsi la fiducia di coloro che avevano abbandonato il partito dopo il fatto, era indispensabile sfruttare l’unica alternativa possibile e cioè passare al contrattacco, contrapponendo al martire socialista
un elenco numeroso di “caduti per la rivoluzione” ad opera dei rossi: “Fascisti, camicie nere vercellesi, uomini della nuova ricostruzione: chi non ricorda le giornate affocate di sole e di entusiasmo, rosse di passione e
di sangue del luglio ’22?… è questa l’ora. Dimostrare a tutta la malnateria avversaria che siamo vivi, in piedi, in forza, inflessibilmente”[24].
In questo momento di crisi, al Fascio vercellese importò soprattutto di mostrare a Mussolini la propria stabilità[25]; venne indetta a tale scopo un’assemblea ove si impose la presenza di tutti i fascisti, affinché non si mancasse “…alla testimonianza di fede che Vercelli fascista riconfermerà al Duce”[26] e venne inviata una pergamena a Mussolini dal Consiglio comunale; analogo l’atteggiamento della Diocesi: “D’altronde un cambiamento di governo dinnanzi all’opinione pubblica non sarebbe nemmeno pienamente giustificato, perché, a parte le continue violenze e i soprusi di alcuni aderenti al Partito, che ne hanno diminuito
il prestigio, non si può tuttavia negare che detto governo si è anche reso benemerito per alcune buone disposizioni adottate anche in riguardo alla Religione”[27]. In nome di alcuni provvedimenti a favore della religione il
clero locale giustificò quindi il consolidamento della dittatura, considerando del tutto trascurabili gli elementi
che l’avevano permessa!
La crisi interna indusse gli aderenti al gruppo fascista “Benito Mussolini” a restare indipendenti dalle direttive del Direttorio locale fino alla nomina di un nuovo Direttorio ed a intensificare la propaganda per la fusione di tutte le forze del fascismo vercellese.
Crisi anche in seno al Consiglio comunale per le dimissioni di dodici consiglieri e la mancata partecipazione di altri alle sedute del Consiglio stesso, tanto che l’anniversario della Marcia su Roma fu commemorato da venti consiglieri su quaranta.
Affermazioni come quelle sopraindicate della stampa fiancheggiatrice influirono sull’opinione pubblica, sopendo le possibili recriminazioni sulla responsabilità del regime nei confronti del delitto Matteotti (soprattutto per il fatto che da parte aventiniana mancò ogni collegamento diretto con il paese); il mancato intervento personale del re in un fatto di tale gravità, la speranza di ricondurre Mussolini nell’ambito costituzionale decretarono negli ultimi mesi del 1924 la fine della opposizione che si era aperta con l’Aventino e che dal punto di vista intellettuale e morale aveva pur rappresentato un momento di ripresa e di risveglio.
Con la mobilitazione delle squadre nelle province, con le disposizioni di Federzoni per il sequestro della stampa di opposizione e l’ordine ai prefetti di “chiusura di tutti i circoli e ritrovi sospetti dal punto di vista politico lo scioglimento di tutte le organizzazioni che sovvertissero i poteri dello Stato; la vigilanza sui comunisti e sui sovversivi, con retate degli elementi giudicati pericolosi, il rastrellamento delle armi tenute illegalmente, la rigorosissima vigilanza sugli esercizi pubblici”[28], il fascismo eliminava la fronda interna e preparava le basi per sferrare l’attacco decisivo.
Il consolidamento e l’organizzazione del Fascismo su scala nazionale rese determinante la composizione dei dissidi interni al Fascio vercellese che avevano avuto un seguito nella polemica apertasi con l’espulsione
dei capi del gruppo dissidente “Benito Mussolini”: dott. Antonio Bodo, avv. Giuseppe Vitale, rag. Alfredo Benasso. La deliberazione, ratificata dalla Federazione provinciale fascista di Novara senza udire le difese dei puniti, venne in seguito sospesa e poi fatta oggetto di una “serena considerazione”[29] nel marzo 1925. La necessità di mantenere coeso il fascio provinciale e di darne dimostrazione a Mussolini (la cui visita a Vercelli era stata preannunciata dalla fine del 1924) fu oggetto di ampia propaganda: “Da oggi devono cessare le divergenze… bisogna che ciascuno di noi si persuada che il nostro partito è soltanto disciplina, bisogna che ciascuno di noi sacrifichi alla disciplina di partito le personali rivendicazioni… Fascisti basta con le lagnanze, basta con le scuse, i pettegolezzi… Rientrate tutti nelle file del partito. Insieme troveremo un accordo. Divisi non lo troveremo
mai”[30]. La crisi venne composta con l’immissione di “uomini nuovi” nel Direttorio del Fascio Aldo Milano; tra questi l’avv. Mario Defabianis, il conte De Rege Thesauro, il cav. Fulvio Tomassucci, il grand. uff. Felice Lombardi, l’avv. Camillo Gabasio[31].
Mussolini a Vercelli
La visita di Mussolini a Vercelli fu intensamente preparata con la richiesta rivolta a tutti i fascisti del circondario di convenire numerosi per presentarsi debitamente organizzati a tributare onori al duce. Sintomatico questo manifesto: “Fascisti, a questo italiano cui sembra ubbidire il destino, a questo politico, che per la sua tesi di laurea, ripudiati finalmente i sofismi d’oltralpe, scelse nel Machiavelli il suo maestro e nel Principe il suo Vangelo, a questo ministro per cui l’Italia ha cessato di essere umile gregge per diventare finalmente Nazione, al Duce unico ed incomparabile, per tutto l’amore, con tutta la fede, in perfetta ubbidienza gridate Eja Eja Alalà”[32]. Il settimanale cattolico: “Come cattolici sentiamo il dovere di chinare la nostra fronte dinnanzi all’autorità costituita che secondo l’insegnamento della nostra fede ha da Dio la sua origine e la sua ragione d’essere”[33].
Attendevano Mussolini il 27 settembre 1925, insieme ad altre personalità, il maresciallo d’Italia Luigi Cadorna, il generale Gaetano Giardino, il pro-sindaco Ernesto Aghina, la Giunta comunale, il prefetto gr. uff. Cantore, il sottoprefetto cav. Giannelli, l’on Forni, il generale della Milizia Oddone, il console medaglia d’oro Tomassucci.
Secondo il programma si procedette alla inaugurazione della lapide delle 16 medaglie d’oro nella Torre Civica, e a quelle della lapide ai Martiri Fascisti e della lapide ai 500 caduti di Vercelli nel palazzo del Municipio. Seguì un ricevimento in Municipio, dal cui balcone Mussolini lanciò un discorso alla cittadinanza, sfoggiando la sua tradizionale eloquenza, facendo appello all’eroismo vercellese, al sentimento ed all’entusiasmo popolare (solo una folla opportunamente esaltata poteva uscire in scroscianti battimani di fronte a parole di questo genere “Mi sento vostro, carne della vostra carne e spirito del vostro spirito; vibro della vostra passione, mi nutro della vostra fede”)[34], di evidenziare la sua cultura facendo riferimenti all’inferno dantesco, di tessere frasi retoriche sull’esercito i cui soldati “avevano negli occhi lampi di gioia e di orgoglio” e di rivelare a questo pubblico in visibilio che i soldati erano dei “guerrieri”.
Alcuni giorni dopo tale visita, Cadorna espresse a Pallanza all’on. Belloni la sua ammirazione per l’entusiastica giornata di Vercelli: “Più che mai S. E. Mussolini ha il diritto di sentirsi sicuro di sé, del suo Governo, del suo popolo”[35]. Con la sua solita fraseologia anche lo stesso Mussolini, parlando del ricevimento avvenuto a Vercelli, dichiarò che mai aveva assistito ad un entusiasmo di popolo così vibrante e sincero.
Mentre i giornali continuavano ancora a parlare della visita del capo del governo, destò particolare scalpore negli ambienti fascisti cittadini la notizia del complotto del 4 novembre e dell’arresto dell’on. Tito Zaniboni ex deputato socialista e del generale Luigi Capello che avevano preparato un attentato contro Mussolini. Venne organizzato un corteo di giovani fascisti che acclamavano imprecando contro la massoneria e chiedevano l’esposizione delle bandiere; parlarono dal balcone del Municipio il pro-sindaco Aghina e l’on. Olmo e per iniziativa dell’Arcivescovo si tenne in Duomo un “Te Deum” solenne di ringraziamento per lo scampato pericolo del capo del governo, a cui intervennero tutte le autorità, ogni ordine di scuole, istituti, associazioni. Seguì un telegramma di ringraziamento del duce; Vercelli ebbe modo poi di dimostrare immediatamente e concretamente il proprio attaccamento al duce ed al suo operato aderendo alla “sottoscrizione del dollaro” con la cifra di lire 250.000.
La restrizione della libertà di stampa, alla quale l’attentato Zaniboni aveva fornito occasione, non incontrò resistenze da parte dell’unico giornale non ufficialmente fascista: “La Sesia” rinunciò da allora a pubblicare anche i minimi cenni di critica nei confronti dell’operato fascista.
Giro di vite nel Pnf vercellese
Poste le basi della dittatura il 3 gennaio 1925 si iniziò l’opera di fascistizzazione dello stato, emanando una serie di leggi che decretarono l’espulsione degli Aventiniani dalla Camera, la soppressione della libertà di stampa, l’epurazione dei funzionari sospetti di scarsa fedeltà al regime, la limitazione delle autonomie delle amministrazioni locali con la sostituzione del podestà al sindaco; insieme all’opera di costruzione burocratica si rendeva necessaria un’azione di organizzazione sindacale ed economica tale da potenziare internamente la nazione, sottraendo il proletariato alle organizzazioni socialiste, che continuavano ad avere maggiori adesioni rispetto a quelle fasciste. Prima con il patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, con il quale si riconoscevano come soli legittimi rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori i dirigenti della Confindustria e delle Corporazioni nazionali, poi con la legge Rocco del 3 aprile 1926, si permise alla Confindustria di raggiungere il proprio scopo, distruggendo le organizzazioni libere dei lavoratori, vietando loro la possibilità di concludere contratti collettivi e di servirsi dello sciopero: non restava loro che la scelta dell’autoscioglimento.
A1 popolo vennero indicate le direttive ed i compiti da svolgere per inserire la nazione nel novero delle grandi potenze: ubbidire e lavorare. Questo il monito ai vercellesi apparso nel gennaio 1926, riflesso della linea assunta dal regime ad un anno dalla conquista dei pieni poteri: “Il fascismo non domanda a tutti i cittadini che si occupino di politica e di partiti, vuole anzi che alle vuote e sterili preoccupazioni politiche si sostituiscano passioni più fertilizzanti per l’economia e l’ascensione spirituale della nazione”[36]. All’ammonimento al popolo si aggiunse anche il richiamo alle gerarchie per l’adeguamento alla nuova autorità del regime. “A tutti i segretari politici del circondario: ordino a tutti i fasci dipendenti di non promuovere né assecondare banchetti in onore di chicchessia… bisogna creare uno stile ed un modo di vita. Perciò i banchetti sono cose da bandirsi per sempre. Sia in tutti i fascisti fortemente intenso il senso di disciplina, dell’austerità e dell’umiltà. Il console Tomassucci”[37].
Questo “giro di vite” si evidenziò nella Federazione provinciale e nel Fascio cittadino con una serie di espulsioni che colpirono note personalità della provincia.
L’on. Amedeo Belloni deplorato dalla Federazione provinciale dei Fasci per aver ripetuto privatamente una cerimonia che si era già svolta ufficialmente alla presenza di tutte le autorità, si difese affermando di essere giunto in ritardo a tale cerimonia e smentendo l’intenzione contestatagli di voler rivaleggiare con le massime gerarchie provinciali; ma nel febbraio venne sospeso per sei mesi da ogni attività di partito per “aver tollerato il grave disordine in cui si era abbandonata la Federazione; i membri del disciolto direttorio provinciale furono per la stessa ragione biasimati”[38]; nel maggio fu espulso dal Pnf per decisione dell’on. Turati, che fu testimone di incidenti, la cui responsabilità fu attribuita a Belloni, verificatisi al Congresso provinciale fascista.
In seguito alle dimissioni dei Consiglieri provinciali, seguite a quelle di Belloni, venne nominato Commissario Prefettizio il cav. Fronteri, sostituito poco dopo dal generale Ugo Franco, alle cui dimissioni, sempre nel mese di maggio, successe il generale Nasalli-Rocca.
Nel settembre apparve un comunicato del console Tomassucci denunziante Leandro Gellona come estremista nel partito, infido e sovversivo; il 4 ottobre vennero espulsi dal partito il Gellona, accusato di opera disgregatrice continuata, malgrado i richiami e gli ammonimenti, e per aver anteposto i propri interessi agli ideali fascisti; il gr. uff. avv. Luigi Bozino “perché malgrado i grandissimi riguardi usatigli non soltanto ha continuato ad esplicare, ma ha sempre più intensificato la propria opera disgregatrice, arrogandosi nel partito un’autorità che nessuna gerarchia gli ha mai conferito e per essersi lasciato trasportare senza alcuna motivazione a pubbliche indecorose escandescenze contro le superiori gerarchie, giungendo al punto di ricorrere a deplorevoli argomenti regionalistici che sono in pieno contrasto col sentimento nazionale, base dell’idea
fascista”[39]; Felice Chiais (proprietario di una tipografia) “per aver dimostrato di non saper comprendere il Fascismo che sotto il solo punto di vista del proprio interesse commerciale”[40]. Vennero ratificate inoltre altre due
espulsioni con motivazione di indisciplina verso le superiori autorità.
Nel novembre apparve il seguente comunicato: “Onde procedere ad una scrupolosa e severissima revisione degli iscritti al Fascio si pregano i fascisti che fossero al corrente di fatti che riguardano l’operato dei loro camerati e che possano anche lontanamente menomare la loro fede fascista e il loro onore di cittadini di farlo presente al sottoscritto. Il segretario politico medaglia d’oro Tomassucci”[41].
Dopo le epurazioni, evidentemente le cose potevano tornare come prima: infatti in seguito ad una proposta del segretario generale del Pnf in data 5 gennaio 1927 fu annullata la deliberazione con la quale erano stati espulsi dal partito Gellona, Bozino e Chiais. Colpisce inoltre il modo con cui il fascismo vercellese, ligio alle disposizioni, si assunse in quell’anno il dovere della critica, non solo nei confronti dell’opposizione interna, ma anche contro gli oppositori esterni del Regime. Ad esempio Gaetano Salvemini fu il soggetto di un articolo[42] in cui si trovò modo di uscire dagli angusti limiti della cronaca locale per sferrare violente accuse contro uno dei più significativi rappresentanti dell’antifascismo.
L’odio dei fascisti per i fuorusciti oppositori del regime si acuì maggiormente con gli attentati a Mussolini del 7 aprile, 11 settembre e 4 novembre, quando ci si rese conto che gli esuli godevano del favore e della protezione di governi stranieri; ciò permise una nuova ondata di violenza contro avversari ormai innocui e, per contro, una più forte esaltazione del regime.
A Vercelli, oltre a suscitare la solita “commozione” nella cittadinanza e nelle gerarchie, gli attentati determinarono la pubblicazione di una ridda di articoli contenenti sperticate manifestazioni di giubilo per lo scampato pericolo. Particolarmente esultante fu il clero che chiamò in causa Dio e la Provvidenza: “Innalziamo al Dio misericordioso il nostro ringraziamento per aver risparmiata una sì atroce sciagura alla nazione ed eleviamo una fervida preghiera al Signore affinché sia conservato all’Italia chi con energia e ferrea volontà ne regge le sorti e rappresenta il principio dell’ordine, della pace e del lavoro”[43]; “… noi nutriamo nel nostro cuore viva la speranza che come fino ad ora l’uomo politico potè sfuggire all’orribile carneficina con cui lo si poteva colpire, così la Provvidenza vorrà vegliare ora e sempre sopra di lui per l’amore e il bene dell’Italia nostra”[44].
Al teatro Verdi venne eseguito l’inno “Giovinezza” ascoltato in piedi dal pubblico ed accolto da fragorosi applausi; in serata sfilò l’immancabile corteo a cui fece seguito l’invio del rituale telegramma al duce.
Per mitigare il carovita
L’inflazione del dopoguerra era stata fermata, ma durante il governo di Mussolini il valore della lira era andato di nuovo calando; i prezzi all’ingrosso ed al minuto erano tornati a salire e la tendenza inflazionistica riprendeva. L’obiettivo imposto da Mussolini nel discorso del 18 agosto 1926 era quello di conseguire economie nelle importazioni e quindi aumentare la produzione. A tale scopo doveva essere diminuita l’importazione di grano ed a tal fine era già stata proclamata la “battaglia del grano”, imposto l’uso di minerali nazionali per la produzione siderurgica, vietato l’uso di generi di lusso; inoltre fu concessa agli imprenditori l’autorizzazione di aumentare da otto a nove le ore di lavoro giornaliere.
La collaborazione di classe, uno degli scopi essenziali della legge 3 aprile 1926, rimase però soltanto teorica.
Nel luglio 1926 si definì la situazione sindacale del circondario come ottima “… le masse dei contadini sono ormai inquadrate nella quasi totalità dei Comuni in fiorenti sezioni. Molte di esse dispongono di locali sociali, di circoli vinicoli, di spacci di generi di consumo. Anche per la buona volontà e la lealtà dei datori di lavoro, è doveroso riconoscerlo, i concordati sono applicati e rispettati. Naturalmente il trapasso da un sistema di lotta di classe ad un sistema di ordine e collaborazione non è cosa che possa essere improvvisata in un mese o in un anno…” [45]. Quando però si trattò di realizzare la tanto ribadita collaborazione di classe cominciò a vacillare negli agricoltori “la buona volontà e la lealtà”; infatti, dopo le disposizioni seguite al discorso di Pesaro, alcuni insistettero per imporre la nona ora giornaliera senza il compenso straordinario, adducendo a pretesto di aver ricevuto, in tale senso, una circolare della Federazione agricoltori che il Gruppo sindacale vercellese smentì fosse stata diramata.
Nella difesa del prodotto nazionale, Vercelli ottenne un “ambito premio” nella battaglia del grano con la vittoria del comm. Saviolo, premiato per aver ottenuto una media di q. 37 per ettaro, mentre la media di produzione della zona era di q. 17.
Nelle manifestazioni svoltesi negli ultimi mesi del 1926 si inserirono appelli per il boicottaggio di prodotti stranieri. Per mitigare il carovita, in città il 5 ottobre 1926 si tenne inoltre una riunione, sotto la presidenza del commissario prefettizio, nel corso della quale si decisero l’istituzione di uno spaccio di generi alimentari gestito dal Comune, di un calmiere sulla carne, vantaggi per l’istituzione di aziende private aventi i mezzi per rifornirsi alle fonti di produzione, eliminando così il ruolo dei mediatori. Fu poi istituito un calmiere sul pane e si tentarono energici provvedimenti contro quei proprietari di case che avevano tentato di approfittare della tassa sul valore locativo per aumentare gli affitti. Provvedimenti, questi ultimi, aventi un duplice scopo: da un lato erano inseriti nella politica di rafforzamento della nazione, dall’altro miravano a polarizzare l’attenzione delle masse sui provvedimenti popolari ed impedire che si rendessero conto del vero interesse del fascismo diretto nei confronti dei ceti capitalistici che ne avevano determinato l’ascesa, continuavano nella loro opera di finanziamento e ne influenzavano gli orientamenti economici.
Vercelli capoluogo di provincia
Il 7 dicembre 1926 fu pubblicato su tutti i giornali cittadini il seguente telegramma di Mussolini: “Oggi su mia proposta il Consiglio dei Ministri ha elevato codesto comune alla dignità di capoluogo di provincia. Sono sicuro che col lavoro, colla disciplina e con la fede fascista codesta popolazione si mostrerà meritevole dell’odierna decisione del Governo fascista”.
Vennero nominati: prefetto il siciliano dott. Empedocle Lauricella; segretario federale il console Fulvio Tomassucci, segretario politico del Fascio Aldo Milano, podestà il conte ing. Adriano Tournon; segretario generale dell’Ufficio provinciale dei Sindacati fascisti Edoardo Malusardi (sostituito temporaneamente, dal febbraio al novembre 1927, da Carlo Pagnone). Fu insediato inoltre il Direttorio provinciale i cui membri erano: il segretario federale Tomassucci, il vice-segretario avv. Gabasio, il segretario amministrativo comm. Vittorio Sesia, il rag. Benasso, Cesare Mino, Carlo Bersano, l’ing. Paloschi, l’ing. Bessone.
Nel gennaio 1927 fu insediata una Commissione reale per l’amministrazione straordinaria della Provincia; il prefetto ricordò che in regime fascista era necessario essere sbrigativi, perciò la commissione doveva accelerare i suoi lavori e risolvere velocemente ogni questione affinché la provincia potesse essere istituita, organizzata ed attrezzata nel più breve tempo possibile.
Fu istituita la Corte di disciplina provinciale, i cui componenti furono: presidente il federale Tomassucci, segretario il centurione dott. Mario Vedani, membri il cav. dott. Giovanni Vaccino, cav. Cesare Mino, avv. Giovanni Rastellino, ing. Arrigo Paloschi, rag. Alfredo Benasso, avv. Giuseppe Vitale. Essa funzionò, come ebbe a ricordare ad alcuni mesi dalla sua costituzione il federale Tomassucci, unicamente per analizzare e comporre i casi di dissidio tra i fascisti, esclusi quelli causati da conflitto per interessi privati.
Nel maggio fu nominato il Consiglio direttivo dell’Onmi: presidente avv. Roberto Olmo, presidente Collegio orfane avv. Tito Graneri, presidente Ricovero mendicità Francesco Vigino, presidente Opera esposti avv. Ettore Furno, delegata provinciale dei Fasci femminili Matilde Meregazzi Margaritori. Si presero anche accordi tra la delegata dei Fasci femminili, il Segretario federale e la presidente del Patronato Giovani operaie Tina Ugo Bollati, per dare inizio al Dopolavoro femminile fascista, che avrebbe avuto sede presso i locali dell’Asilo Mora, associandosi così al Patronato stesso.
Per sovvenzionare il nascente Dopolavoro provinciale, la cui sezione, costituita nei locali del ridotto del Teatro civico, fu inaugurata nel giugno dall’on. Starace, il Segretario federale diramò una circolare invitando tutti i cittadini abbienti e specialmente commercianti, industriali ed esercenti a sottoscrivere una libera somma annua. La sezione si proponeva di “… toglier dalla bettola o dai luoghi di convegno equivoci l’operaio e l’impiegato nelle ore libere e dare un ambiente ricreativo, educativo e culturale nello stesso tempo, dove, con trattenimenti onesti, con letture sacre e con l’audizione di buona musica e di interessanti conferenze su soggetti di vita pratica, possano riposarsi e arricchire il corredo delle loro cognizioni…”[46]; significativo questo proposito infarcito di atteggiamenti paternalistici e di unzione cattolica in cui, il voler togliere l’operaio dall’osteria, voleva significare sottrarlo all’unico luogo in cui, malgrado la presenza di spie, poteva incontrarsi coi compagni e discutere con essi piuttosto liberamente.
Nell’organizzazione della nuova provincia si inserì anche la riorganizzazione dell’Opera nazionale Balilla sotto la presidenza del comm. Ermanno Rivetti. Le tre legioni provinciali erano una a Vercelli (la 313a legione “Riccardo Celoria”), una nella Valsesia, una nel Biellese; ogni ex capoluogo di mandamento doveva essere sede del comando di centuria, ogni tre o quattro ex mandamenti dovevano costituire una coorte con sede dove aveva la residenza il comandante la coorte stessa, ogni Comune doveva provvedere (in base al regolamento generale dell’Onb) una sede per gli Avanguardisti munita di sala di lettura e di palestra.
Sul bollettino nazionale dell’Onb, nel dicembre, apparve tale citazione di Renato Ricci, “Cito all’o.d.g. dell’O.N.B. i comitati di Chieti e di Vercelli, per l’intensa attività esplicata nel curare lo sviluppo delle organizzazioni giovanili dipendenti, le quali vanno annoverate tra le più disciplinate e fiorenti dell’O.N.B. non soltanto per il perfetto ordinamento, ma anche per il numero davvero considerevole dei soci”[47].
Secondo fonti dell’epoca[48] nella nostra provincia nel 1927 esistevano 145 sezioni fasciste, con un totale di 8.200 iscritti di cui 700 a Vercelli, 300 Avanguardisti, 500 Balilla; la Milizia rappresentata dalla 28a legione “Giovanni Randaccio” era divisa in tre coorti formate da un complesso di 1.500-1.600 uomini.
Nel giugno giunse notizia della prossima ricostituzione del Tribunale a Vercelli la cui soppressione, nel marzo 1923, aveva destato proteste e critiche contro l’operato del governo; il Tribunale entrò poi in funzione nel maggio 1928.
In segno di ringraziamento e di omaggio per le concessioni che le erano state fatte, Vercelli fascista, prima fra le province italiane, offrì un velivolo al duce nel giorno del suo compleanno; i giornali locali diedero ampio spazio alla descrizione della cerimonia e della consegna avvenuta a Roma alla presenza di Balbo e Starace. Il duce così ringraziò: “Nessuno mai aveva pensato di offrirmi qualcosa che fosse utile alla Nazione… So che nella provincia di Vercelli le cose camminano bene…”[49].
Al ringraziamento si aggiunse, qualche settimana dopo, l’elogio all’operato del Direttorio federale “… il fascismo vercellese ha scritto pagine meravigliose nella storia della Rivoluzione fascista…”[50].
Note
[*] ⇑ Saggio tratto dalla tesi di Andreina Rastello e Lorenzina Opezzo, Azione e organizzazione politica del fascismo a Vercelli 1922-1943, Università degli Studi di Torino, Facoltà di Magistero, anno accademico 1971-1972.
[1] ⇑ Sul dopoguerra: Luigi Salvatorelli – Giovanni Mira, Storia d’Italia nel periodo fascista, Milano, Mondadori, 1969.
[2] ⇑ Significativi i nomi degli agricoltori firmatari il concordato per i futuri sviluppi del fascismo: on. Giovanni Alice, geom. Ettore Negri, avv. Roberto Olmo, cav. Annibale Pozzi, cav. Eusebio Saviolo, comm. Novello Novelli.
[3] ⇑ “La Sesia”, 21 gennaio 1921, n. 6.
[4] ⇑ Sulle origini del fascismo: Angelo Tasca, Nascita ed avvento del fascismo, Firenze, La Nuova Italia, 1950, Paolo Alatri, Le origini del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1967, Enzo Santarelli, Storia del fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1967.
[5] ⇑ Sull’episodio si veda Rosaldo Ordano, Cronache Vercellesi, 1910-1970. La vita politica, Vercelli, La Sesia, 1972, p. 55 e ss.
[6] ⇑ “La Sesia”, 25 luglio 1922.
[7] ⇑ L’avv. Pedrotti dirigeva l’amministrazione comunale dal 3 marzo, in seguito alle dimissioni del sindaco Lorenzo Somaglino.
[8] ⇑ Commentando tale fatto, “La Risaia” (8 luglio 1922) dimostrò come i socialisti pensassero ancora ad una soluzione legale della situazione prospettando come possibile l’allontanamento dalla carica del Cimino.
[9] ⇑ “La Sesia”, 15 agosto 1922.
[10] ⇑ Idem.
[11] ⇑ “La Sesia”, 3 novembre 1922.
[12] ⇑ “La Sesia”, 2 febbraio 1923.
[13] ⇑ “La Sesia”, 13 febbraio 1923.
[14] ⇑ I risultati delle elezioni sono riportati in “La Sesia”, 20 febbraio 1923, n. 15.
[15] ⇑ “Rinascita”, 21 dicembre 1923, n. 15.
[16] ⇑ “La Sesia”, 22 gennaio 1924.
[17] ⇑ “L’Argine”, 25 gennaio 1924, n. 4.
[18] ⇑ “L’Argine”, 21 marzo 1924, n. 12.
[19] ⇑ “Rinascita”, 11 aprile 1924, n. 34.
[20] ⇑ “La Sesia”, 18 aprile 1924, n. 33.
[21] ⇑ “La Sesia”, 17 giugno 1924, n. 49.
[22] ⇑ “L’Argine”, 27 giugno 1924, n. 26.
[23] ⇑ “Il Popolo Vercellese”, 24 agosto 1924.
[24] ⇑ “Il Popolo Vercellese”, 13 luglio 1924.
[25] ⇑ Si aprì comunque una crisi nel Direttorio fascista: il 20 agosto fu votato un o.d.g. in cui vennero accettate le dimissioni del Segretario politico ing. Augusto Ferraris.
[26] ⇑ “Il Popolo Vercellese”, 6 luglio 1924.
[27] ⇑ “L’Argine”, 22 agosto 1924, n. 64.
[28] ⇑ Alberto Aquarone, L’organizzazione dello Stato Totalitario, Torino, Einaudi, 1965, p. 346, documento 9.
[29] ⇑ “Il Popolo Vercellese”, 1 marzo 1925.
[30] ⇑ Idem.
[31] ⇑ Secondo una notizia apparsa sul n. 23 del 20 marzo de “La Sesia” per l’elezione del Direttorio furono presentate due liste: quella ufficiale capeggiata da Lombardi e quella dei dissidenti di cui era uno dei maggiori esponenti Leandro Gellona (direttore di “Rinascita” e poi, dal 1927, de “La Provincia di Vercelli”) il quale pretese però una rettifica apparsa sul n. 25 in cui confermava la propria fedeltà al Partito fascista. Anche la polemica sul “passato socialistoide” dell’avv. Gabasio (“Il Popolo Vercellese”, 29 marzo 1925) venne messa a tacere con assicurazioni sulla sua fede fascista.
[32] ⇑ “Il Popolo Vercellese”, 27 settembre 1925, n. 38.
[33] ⇑ “L’Argine”, 18 settembre 1925, n. 38.
[34] ⇑ Benito Mussolini, Scritti e discorsi, Milano, Hoepli, 1934.
[35] ⇑ “Il Popolo Vercellese”, 4 ottobre 1925, n. 39.
[36]⇑ “Il Popolo Vercellese”, 24 gennaio 1926, n. 4.
[37] ⇑ “L’Assalto”, 15 giugno 1926, n. 3.
[38] ⇑ “La Sesia”, 2 febbraio 1926, n. 10, e “Il Popolo Vercellese”, 7 febbraio 1926, n. 6.
[39] ⇑ “L’Assalto”, 5 ottobre 1926, n. 19.
[40] ⇑ Idem.
[41] ⇑ “L’Assalto”, 9 novembre 1926, n. 24.
[42] ⇑ “Il Popolo Vercellese”, 24 gennaio 1926, n. 4.
[43] ⇑ “L’Argine”, 15 settembre 1926, n. 38.
[44] ⇑ “L’Argine”, 5 novembre 1926.
[45] ⇑ “L’Assalto”, 20 luglio 1926, n. 8.
[46] ⇑ “La Provincia di Vercelli”, 1927, n. 1
[47] ⇑ “La Provincia di Vercelli”, 6 dicembre 1927.
[48] ⇑ Sandro Giuliani, Le 19 Provincie create dal Duce, Milano, 1928.
[49] ⇑ “La Provincia di Vercelli”, 1927, n. 41.
[50] ⇑ “La Provincia di Vercelli”, 1927, n. 49.